LE MURA DI LUCCA
"Oggi si può tranquillamente affermare che
Lucca si è salvata, almeno quale eccezionale complesso
urbano, grazie alla presenza e alla protezione delle sue mura.
Non sarebbero bastati né la volontà di pochi
né l'amore di molti; non sarebbero bastate le leggi
né la inerzia demografica della città. Si sarebbero
verificate tangenze, infiltrazioni, sostituzioni, ammodernamenti;
si sarebbero avuti sventramenti e "correzioni" viarie
in un tempo in cui per malintesa modernità sembrò
ad alcuni indilazionabile la immissione del traffico motorizzato
attraverso la serrata maglia dei percorsi medioevali. Ma la
prima condizione perché tali "interventi"
potessero apparire in qualche modo giustificabili e materialmente
possibili era l'abbattimento delle mura. E fino a tanto non
si arrivò. Le mura rimasero a distinguere l'ordine
e la bellezza del centro storico dal disordine e dalle battute
degli immediati dintorni: dentro, l'armonia; fuori la confusione
e l'impotenza."
Pier Carlo Santini: "Ci difenderanno ancora" (in:
"La fiera letteraria", 20 luglio 1967)
Non meravigliarti, amico lettore, se apprenderai che le mura
di Lucca, che sono il vanto della città e tutto il
mondo ce le invidia, devono la loro esistenza ad una donna.
Nemmeno io lo avrei mai creduto, finché qualcuno non
mi narrò questa storia.
Devi sapere, dunque, che tanti e tanti anni fa Giove decise
di non mettere mai più piede sulla Terra. Ammetto che
il fatto pare incredibile anche a me, ma andò così.
Giove, convocati innanzi a sé gli Dei dell'Olimpo,
chiamò a sedere alla sua destra l'ignara Giunone e,
dopo averla fissata bene negli occhi, con sorpresa generale
dichiarò che non avrebbe mai più visitato la
Terra. Il motivo? Le sue scappatelle - disse proprio così
- arrecavano ogni volta un grande dispiacere alla sua adoratissima
sposa, e perciò era giunto il momento di non farla
più soffrire. Come puoi facilmente immaginare, Giunone
non riusciva a credere alle proprie orecchie, infine si dimenò
tutta contenta sul trono dorato e non nascose davanti a quel
consesso straordinario la sua immensa felicità.
Guai, però, a fare certe promesse!
Infatti, passa oggi, passa domani, ecco che Giove cominciò
ad annoiarsi e a convincersi che non era giusto che il padrone
del mondo fosse ridotto a condurre un'esistenza tanto miserabile.
Così, un bel giorno, convocò presso di sé
Giunone e le confidò che non ne poteva proprio più
di quella vita, e lei per prima, se veramente lo amava, doveva
capire che sarebbe potuto diventare addirittura pazzo se non
avesse riconquistato la sua libertà. Quella segregazione
era durata abbastanza, e ora era tempo di ritornare alle dolci
abitudini che lo avevano reso tanto felice.
"Mi avevi giurato che ti saresti dimenticato della Terra"
gli rispose risentita lei, che aveva creduto alla sua promessa.
Quegli anni, infatti, erano trascorsi molto felici, e Giunone
aveva ricevuto mille attenzioni dal potente marito.
Oh, lo si vedeva bene che le altre donne, con certe occhiate
e certe moine, cercavano di insidiarle lo sposo, ma lui si
mostrava a tal punto insensibile ai loro corteggiamenti che
non c'era bellezza che riuscisse a rivaleggiare con lei.
Ora, però, Giove era diventato irrequieto, nervoso,
irascibile; e Giunone conosceva bene quei segni, sapeva che
erano quelli i sintomi che precedevano le sue scappatelle!
Dopo quella confidenza, perciò, prese di nuovo a sorvegliarlo,
sia di giorno che di notte.
Si sforzò anche di apparire più bella che mai,
chiese consiglio ad alcune ninfe del mare, cosparse il suo
corpo di rari unguenti e profumi, si adoperò di mostrarsi
allegra anche se era triste, si fece suggerire da Cupido le
frasi amorose più seducenti e infine, con la consapevolezza
di una moglie che sa di dover badare a troppe rivali, si mise
l'animo in pace e attese.
Giove, infatti, non se n'era stato con le mani in mano, e
aveva pensato bene di inviare sulla Terra, in gran segreto,
due suoi fidatissimi messaggeri: Apollo e Venere.
"Da voi esigo un lavoro del tutto speciale. Dovete trovarmi
la donna più bella della Terra, e guai se Giunone verrà
a sapere di questa missione."
Alla partenza, che avvenne di notte, lui stesso volle accompagnarli
di nascosto e raddoppiò le sue raccomandazioni:
"Non vi darò pace se fallirete."
Nei giorni seguenti, non fu possibile a nessuno di scambiare
una sola parola con Giove.
Divenne ancora di più insopportabile, irrequieto, iracondo.
Solo Cupido aveva udienza presso di lui, e Giove gli domandava
consiglio e s'informava se c'erano state novità nell'arte
della seduzione.
Confabulavano per delle ore. Giunone osservava tutto questo
in gran segreto, e correva subito incontro a Cupido quando
era lasciato libero di andarsene. Si appostava per parlargli
di nascosto!
"Riferiscimi che cosa ti ha detto" lo aggrediva.
"È un segreto che non posso svelare" rispondeva
il bimbo, che era furbo più di Mercurio .
"Dimentichi chi sono io?"
"È lo stesso Giove che me lo proibisce."
"Parla marmocchio! O andrò su tutte le furie"
rompeva ogni indugio, incollerita, la donna.
E allora Cupido le rivelava con malizia solo alcune parti
del suo colloquio con Giove, ma le altre più interessanti
le teneva ancora per sé, e vedeva bene che Giunone
si inquietava e soffriva!
"Tu non mi dici tutta la verità."
"Lo giuro!" faceva lui, e si voltava per andarsene.
Ma Giunone l'afferrava per un braccio e si metteva a guardarlo
fisso negli occhi.
"Non ci credo" continuava a ripetere, strattonandolo
senza alcun riguardo.
C'erano dei giorni che quella tiritera andava avanti per delle
ore!
Intanto Giove stava coi piedi sui carboni. Erano trascorsi
vari giorni e non aveva ancora ricevuto notizie dai suoi messaggeri.
"Ah, se avessi inviato Mercurio e Cupido!" si lamentava.
Trascorse inutilmente altro tempo.
Giove ora domandava notizie qua e là ostentando indifferenza.
Ma tutti invece già sapevano e si burlavano di lui.
Avvicinandosi a Diana, che al mattino si esercitava con il
suo arco nel vicino boschetto, le domandava notizie di Venere
con malcelata noncuranza.
E Diana, come tutti gli altri Dei, si divertiva a tenerlo
sulle spine.
"Venere? Non si è più vista da quel giorno
che se n'è andata. E nemmeno si è più
visto Apollo. Non si saranno per caso innamorati di qualcuno
sulla Terra? Allora sì che ce ne vorrà di tempo
prima di poterli rivedere quassù!"
"Se sono scesi sulla Terra, come si mormora" gli
diceva Bacco quando Giove andava a trovarlo apposta nella
sua vigna "temo che non ritornino più. Sulla Terra,
tu lo sai bene che ci sono mille tentazioni che fanno gola
anche a noi Dei dell'Olimpo."
Andò perfino a far visita a Vulcano, sebbene non riuscisse
a sopportare tutto quel fuoco che avvampava nella sua fucina.
Ma quando ne uscì, non aveva cavato da quell'uomo scorbutico
se non risposte spigolose e cattive.
Solo con Mercurio riusciva a scaricare la sua tensione. Infatti,
lo scaltro uccisore di Argo, il terribile mostro dai cento
occhi, sapeva prenderlo in giro con tale grazia e furberia
che anche Giove rideva dei propri difetti.
"Lo sanno tutti del delicatissimo incarico che hai loro
affidato, e forse lo sa anche Giunone, poiché da qualche
giorno non rivolge più la parola ad alcuno di noi."
"Dove si saranno mai cacciati quei due balordi?"
s'inquietava Giove. "Ah, se avessi inviato te!"
"Vedrai che tutto andrà bene anche questa volta."
"Sapessi quanto soffro, mio diletto Mercurio!" sospirava
infine Giove, allontanandosi.
Venere e Apollo in effetti stavano facendo scrupolosamente
il loro dovere, e sebbene si rendessero conto che di tempo
n'era passato abbastanza, pur tuttavia sapevano che era meglio
procedere con cautela piuttosto che deludere il potente Giove.
La donna che avrebbero scelto per lui doveva essere senza
alcun dubbio la più bella e perfetta della Terra. Ci
avrebbe pensato altrimenti Giunone a svelare il loro inganno,
se avessero avuto troppa fretta di concludere la loro missione!
Si erano stupiti che nel mondo ci fossero così tante
donne belle.
In più di una occasione si erano trovati sul punto
di credere di avere tra le mani il gioiello che cercavano.
Talune erano addirittura più belle di Venere; lei stessa
lo aveva riconosciuto, e si era affidata al buon gusto e all'esperienza
di Apollo per un più approfondito giudizio.
Poi, alla fine, avevano riscontrato un piccolo, e qualche
volta davvero insignificante difetto, e la mente era andata
subito alla sospettosa Giunone, che senza alcun dubbio lo
avrebbe scoperto da sé e rivelato al suo sposo.
Non c'era niente di più terribile che ingannare Giove
sulle qualità di una donna ed incorrere nella sua ira!
Così Apollo e Venere ogni volta riprendevano il cammino
alla ricerca d'un'altra bella giovane in tutto degna di lui.
Arrivarono finalmente in Italia, e presto furono a Roma che,
con la sua potenza militare, proprio in quegli anni stava
conquistando il mondo.
"Da qui non ce ne andremo senza la nostra compagna"
disse sicuro di sé Apollo.
Quindi si misero a spiare in ogni casa, in ogni palazzo; anche
dei tuguri visitarono, poiché avevano sentito decantare
che a Roma pure tra la povera gente si trovava qualche bellezza
rara.
Furono più di una volta sul punto di riuscire nell'impresa
anche in questa città. Ma alla fine se ne dovettero
partire a mani vuote.
Altre città attraversarono, altri paesi, altre campagne,
perfino sui monti si arrampicarono i due infaticabili mèssi
dell'Olimpo, finché giunsero a Lucca.
Questa città, a quel tempo molto, molto piccola, la
si poteva scorgere tutta in un sol colpo d'occhio adagiata
sulle rive del Serchio, se si arrivava dalla cima di una delle
sue colline che la circondano.
Apollo era molto stanco e, vedendola da lassù (la bella
collina di Farneta da dove addirittura si possono scorgere
e Lucca e Pisa insieme!), confidò a Venere che avrebbe
fatto volentieri a meno di scendere a visitarla.
"Sono poche case," le disse "non troveremo
niente di interessante. Riposiamo qui per questa notte, e
domattina molto presto proseguiremo verso nord."
Venere invece avvertiva in cuor suo un fremito insolito, una
curiosità tutta speciale per quella città, e
implorò il compagno di fare un ultimo sforzo e di scendere
con lei quella collina.
"Riposeremo laggiù" lo rassicurò.
Si avviarono lungo il pendio e presto giunsero alle prime
case.
Erano soprattutto contadini e pescatori le prime persone che
incontrarono.
Domandarono loro chi fosse il padrone di quelle terre e appresero
che in quel luogo era stanziata una centuria romana, e proprio
al centurione faceva capo ogni cosa della città.
Sulle rive del fiume trovarono una piccola locanda che faceva
al caso loro.
Entrarono e si accomodarono ad uno dei tavoli apparecchiati
proprio in mezzo alla stanza. Intorno c'era altra gente, soprattutto
soldati, ma anche pellegrini che si trovavano in viaggio per
Roma o diretti a nord, anche oltre le Alpi.
Chiacchieravano volentieri tra loro, e l'oste, un omaccione
bello grosso, li osservava mangiare e li serviva soddisfatto.
Tutti notarono, senza però riconoscerla, la presenza
di Venere. Cominciò così un mormorio che dai
primi tavoli piano piano si estese agli altri.
Ammiravano la sua bellezza e specialmente i soldati non mancavano
di rivolgerle qualche ammiccamento.
Venere si divertiva, abituata com'era a queste cose; e ancora
se ne compiaceva e si sentiva enormemente lusingata.
Le giunse però, all'improvviso, un commento quasi impercettibile,
appena sussurrato, che ella, da femmina attenta e vanesia
qual era, intese subito. Si mise in allarme quando capì
che qualcuno diceva:
"Ne abbiamo anche noi di donne belle come quella"
e quel tale, che era seduto poco distante da lei, si chinò
a bisbigliare all'orecchio di un compagno.
Il quale fu subito pronto a rispondere ad alta voce:
"Hai proprio ragione! Pare anche a me che questa abbia
il naso troppo piccino. Bisognerebbe vedere le sue gambe,
però. Le gambe sono la cosa che conta di più
in una donna."
"Però non dimenticare che anche un bel faccino
e due occhi intriganti hanno la loro importanza. E questa
donna mi pare che abbia i più begli occhi della Terra"
rispose uno che era magro come un uscio.
"E il seno dove lo metti?" s'intromise un altro
che se ne stava un po' più lontano e giocava ai dadi
con altri tre compagni. "Questa mi sembra che non ne
abbia poi molto da mostrare."
"Ah, un bel seno mi fa impazzire" commentò
subito uno di quei tre giocatori, senza voltarsi e gettando
i dadi.
L'oste si avvicinò allora a Venere, e con tutta la
delicatezza di cui era capace, le mormorò all'orecchio
che forse quella locanda non era adatta a lei, e le suggerì
di recarsi al centro della città, vicino al palazzo
del centurione, dove c'era un altro albergo più confacente
al suo rango.
"Mi sembrate due ricchi forestieri, e questo non mi pare
posto per voi."
"Non ti devi preoccupare, brav'uomo" lo rassicurò
Venere, lasciandolo esterrefatto. "Mi piace ascoltare
questa gente" sorrise.
Quelli che udirono e poterono vedere la faccia sbigottita
dell'oste, scoppiarono in una grande risata e batterono le
mani all'indirizzo di quella sconosciuta che aveva il coraggio,
ma anche la buona creanza, di restare con loro. Venere li
ringraziò con un cenno del capo; quindi si alzò
e mostrò tutta intera la sua bella figura.
"Lo pensate davvero che ci possano essere donne più
belle di me?" domandò con malizia. E mosse con
la sua arte ammaliatrice qualche passo, dimodoché tutti
poterono ancora una volta ammirarla.
"Ti chiediamo scusa, signora" fece uno che stava
proprio in fondo alla stanza "ma abbiamo donne bellissime
nella nostra città, e più d'una può starti
a paragone."
"Ne siete proprio sicuri?" sussurrò Venere,
e assunse una di quelle pose incantatrici che avevano fatto
cadere ai suoi piedi gli uomini più potenti della Terra.
"Una addirittura è anche più bella di te!"
si fece coraggio un altro, che doveva essere un mercante,
e lo gridò ad alta voce.
Era quello che Venere voleva sentirsi dire.
"Ah, forse questa volta ci siamo!" pensò,
e lo fece intendere con un'occhiata al suo compagno, che se
n'era stato per tutto quel tempo zitto zitto ad ammirarla.
Erano rarissimi, infatti, i casi in cui quella bella femmina
non avesse fatto centro con le sue moine. Poteva tenere testa
non solo ad una centuria, ma ad un'intera legione di soldati!
Non ci volle perciò molto per scucire quelle bocche,
che già avevano voglia di parlare da sole, e così
Venere e Apollo appresero che una certa Lavinia, moglie dello
scrivano Tiberio, che abitava non molto lontano dalla locanda,
era la donna che la superava in bellezza; sicuramente era
tra le donne più affascinanti del mondo, e forse addirittura
proprio la più bella.
"È probabile che il nostro viaggio si compia qui"
bisbigliò ad Apollo, che era tutto contento di riuscire
in quell'impresa che avrebbe meritato chissà quanti
elogi e ricompense da Giove.
Andarono quindi a letto assai soddisfatti, e quella notte
dormirono come non era più accaduto da moltissimi anni.
Al mattino, il canto del gallo li svegliò molto presto.
Scesero le scale e trovarono l'oste già alzato e, insieme
con la moglie, una grassona ciarliera e simpatica, stava tagliuzzando
gli odori e le verdure occorrenti per la zuppa di quel giorno.
"Oggi cuciniamo la nostra specialità. Vengono
apposta molti clienti per assaggiarla. Ci piacerebbe che rimaneste
con noi."
I nostri viaggiatori ringraziarono, ma confidarono all'oste
che proprio quella stessa mattina erano sicuri di poter fare
ritorno a casa.
"Il nostro viaggio è finito" disse tutto
contento Apollo.
Quindi s'incamminarono nella direzione che era stata loro
indicata, e giunsero così alla casa di Tiberio, il
quale a quell'ora era già uscito per il suo lavoro.
Prima di bussare, curiosarono attraverso una bassa finestra
che dava proprio in cucina. Non videro nessuno, ma restarono
in attesa finché entrò una giovane che teneva
la gonna sollevata e infilata nella cintura della vita, così
da sentirsi più libera nei movimenti e poter sbrigare
meglio le numerose faccende domestiche.
Venere capì subito che era quella la femmina che stavano
cercando. Apollo confermò col capo che era pienamente
d'accordo con lei.
Tutti elettrizzati, felici, decisero quindi di bussare.
Quando la poverina si vide davanti Venere e Apollo, che avevano
l'aspetto di ricchi viaggiatori, rimase sbigottita.
"Cerchiamo proprio te" principiò a dire Venere
con voce rassicurante.
La donna li fece entrare, e una volta che furono seduti, Venere,
per farla corta, riuscì a convincere Lavinia a spogliarsi.
"Stiamo cercando la donna più bella del mondo,
e quando l'avremo trovata, ella riceverà una tale ricompensa
che non dovrà più preoccuparsi del suo avvenire."
Aggiunse poi altre cose che stuzzicarono a tal punto la vanità
di Lavinia, che questa in tutta fretta si tolse gli abiti
e si lasciò ammirare da quei due singolari giudici.
"Sei davvero bella" le diceva ogni tanto Venere,
mentre le toccava i seni, e chiedeva anche il parere di Apollo.
Il viso di Lavinia era d'una bellezza incomparabile, e quel
naso era così perfetto che davvero aveva ragione il
soldato a dire che quello di Venere non le poteva stare a
paragone. Gli occhi poi avevano il colore del mare ed i neri
capelli le scendevano lungo la schiena con leggere, soffici
ondulazioni. Le gambe avevano la perfezione che già
Venere aveva ammirato quando Lavinia s'era mostrata la prima
volta in cucina. Erano superbe. Perfino i piedi emanavano
un loro fascino incantatore!
Apollo concluse che non ci poteva essere nessun'altra donna
più bella di quella, e che quindi era giunto il momento
di annunciarle il premio che le spettava.
Lavinia intanto s'era empita di frivolezza e di piacere a
sentire tutti quei complimenti, e quando giunse il tempo di
rivestirsi:
"Visto che mi avete esaminata da cima a fondo e che mi
trovate degna del vostro premio, ora ditemi di che si tratta"
non si trattenne dal chiedere, non nascondendo tutta la sua
curiosità di femmina.
"Sarai per una notte la sposa dell'onnipotente Giove"
le rispose subito Venere, immaginando i salti di gioia che
avrebbe fatto quella donna.
"La sposa di Giove!?" esclamò invece tutta
delusa e indispettita Lavinia, meravigliando i due visitatori
"Ma io mi credevo che tante belle monete d'oro sonanti
fossero il premio per me!" E il suo viso si avvampò.
Venere stava per svenire; prese fiato per riaversi dallo stupore.
"Ma come!" intervenne Apollo "È un grande
onore riservato a pochissime donne della Terra!"
"Non per questa che avete davanti!"
"È una bestemmia bell'e buona!" esclamò
preoccupato Apollo.
"Bestemmia o non bestemmia, le cose stanno così"
cominciò ad infuriarsi Lavinia.
"Ferma, ferma!" gridò Venere, parandosi il
volto con le braccia, quando vide che la donna stava brandendo
una scopa e si avventava su di loro.
"Non finisce qui!" minacciò Apollo che, afferrato
per un braccio la sua compagna, riuscì finalmente a
trascinarla fuori da quella casa.
"Tu non hai idea di quello che può farti Giove"
gridò quando fu in strada.
"Ci saranno bastonate anche per lui; e quando lo verrà
a sapere mio marito, le bastonate saranno doppie!" rispose
Lavinia, affacciandosi sull'uscio.
Non ci fu nulla da fare.
Apollo e Venere si convinsero così che avevano trovato
davvero la donna più bella della Terra, e che quindi
potevano ora interrompere il loro viaggio e fare ritorno all'Olimpo;
solo però che questa donna era anche la più
cocciuta tra quelle che avevano incontrato, e non c'era alcun
dubbio che non ci stava proprio a giacere con Giove!
Chi avrebbe avuto il coraggio di dirglielo?
Era la peggiore risposta che potevano portare al padrone del
mondo!
Mogi mogi lasciarono la città e, questa volta usando
le loro arti divine, rapidamente raggiunsero l'Olimpo.
Di nascosto, per non farsi udire da alcuno, s'introdussero
nelle stanze di Giove.
"Siamo qua" bisbigliarono.
Giove intuì al volo com'erano andate le cose.
"Avete fatto fiasco, fannulloni! Avete speso tutto questo
tempo per non concludere nulla!" e già stava per
lanciare fulmini e saette contro di loro, quando Venere si
fece coraggio e...
"L'abbiamo trovata la donna che fa per te!" disse
in tutta fretta, prevenendo a tempo l'ira di Giove.
"E allora? Che aspettate? Dov'è questa donna?
Perché me la nascondete? Portatela subito qua!"
E quando Venere, tutta tremante, gli rivelò la verità,
e cioè che Lavinia lo aveva anche sbeffeggiato, e non
voleva proprio saperne di lui, immaginatevi quello che successe
per tutto l'Olimpo!
Lampi, tuoni, grandine, tempeste di vento, nubifragi, grida
mostruose percorsero il cielo in lungo e in largo, e ciascuno
degli Dei, ovunque si trovasse, qualunque cosa facesse, si
fermò atterrito. Capirono tutti che una punizione terribile
si stava rovesciando sulle teste sventurate di Venere e Apollo,
rei di aver fallito l'impresa.
Giunone fu la prima ad accorrere e, sebbene nessuno volesse
dirle niente, intuì la verità.
"Che ti serva di lezione! Era ora che qualche pollastrella
ti dicesse di no."
"Taci, vecchia scimmiona!" le rispose Giove, imprecando
anche contro di lei. "Stai certa che quella giovinetta
pagherà cara la sua superbia. E lo voglia o no, la
porterò nel mio letto."
La notizia di quello smacco si diffuse con la rapidità
del fulmine e la città di Lucca e il nome di Lavinia
furono per giorni e giorni sulla bocca di tutti gli Dei dell'Olimpo.
Giove passò notti terribili, e durante il giorno non
riusciva a sopportare gli sguardi di nessuno. Vi leggeva il
dileggio, il sarcasmo, l'ironia.
Decise quindi di agire con la massima celerità per
porre fine a tutto quel clamore che recava grave pregiudizio
alla sua fama.
Intanto, Lavinia aveva confidato a Tiberio quel che le era
capitato.
Tiberio l'aveva rimproverata per aver ceduto alle lusinghe
di quei due visitatori straordinari, ma si era anche compiaciuto
del rifiuto che aveva saputo opporre alla loro sfacciata proposta.
Si sentì orgoglioso di quella donna assennata e bella.
Ma ora si doveva correre ai ripari, poiché certamente
quelle minacce non erano state pronunciate invano.
Eppoi, non lo sapevano tutti che Giove era vendicativo?
Si confidarono pertanto con degli amici. Tiberio ne parlò
anche con il centurione, e tutti lodarono il comportamento
di Lavinia che aveva difeso, con il suo rifiuto, la dignità
di tutte le donne del mondo. Se ce ne fosse stato bisogno,
l'intera popolazione l'avrebbe aiutata!
Tiberio e Lavinia tornarono a casa soddisfatti delle assicurazioni
ricevute dagli amici e da tutta la città e ripresero
a vivere i loro giorni serenamente.
Vollero anche documentarsi sulla vita di Giove; e così
Tiberio, che era uno scrivano e quindi aveva libero accesso
ai molti manoscritti che si trovavano presso il palazzo del
centurione, si convinse ancora di più che non si doveva
abbassare la guardia dopo quel fatto che era accaduto, e prima
o poi Giove si sarebbe fatto vivo per prendersi la sua rivincita.
E infatti una sera, quando meno se l'aspettavano e Lavinia
era sul punto di andare a letto a raggiungere il suo sposo,
ecco che sentono picchiettare alla porta.
Lavinia avverte subito Tiberio, che si alza e va lui stesso
ad aprire.
Davanti alla porta stava un bellissimo cigno tutto bianco
che, con il suo atteggiamento, lasciava intendere di voler
entrare.
"Avrà fame" ebbe compassione Lavinia, che
era subito accorsa a vedere anche lei, pronta a prestare tutte
le cure necessarie a quell'animale.
"Altro che cigno tutto bianco e bisognoso di cure!"
esclamò invece Tiberio, che aveva rammentato qualcuna
delle sue letture "Questo qui è Giove in persona,
furbo e maledetto!" e subito raccolse dietro l'uscio
il bastone che aveva preparato e giù botte da orbi
a quel delicato e superbo volatile.
Il quale non ristette sulla porta più di tanto. D'un
lampo svanì e fece ritorno all'Olimpo, dove tutti poterono
vedere Giove coperto di ferite e di bernoccoli. Perfino l'occhio
aveva tumefatto!
Rise, gonfia di soddisfazione, l'inquieta Giunone, che si
precipitò comunque in camera sua a cercare le bende
con cui medicare il povero sposo.
"Non è finita qui!" esclamava inviperito
Giove, mentre Giunone gli fasciava quasi tutto il viso e il
tronco.
"Lascia perdere, ti dico. Quella donna non fa per te."
"Non è ancora nata la femmina che può resistermi!"
Lavinia, intanto, ora stava in guardia anche di giorno, e
quando il marito andava al lavoro, lei o usciva insieme con
qualche amica, o se ne restava sprangata in casa. Aveva sigillato
perfino le finestre, e non apriva più a nessuno fintanto
che non ritornava il suo Tiberio.
Una sera, sentirono di nuovo qualche rumore sospetto.
Si alzò Tiberio, guardò dappertutto, spalancò
la porta, ma non notò niente di particolare.
Quando però si rinchiuse in camera con la sua Lavinia,
ecco che da sotto la porta vide strisciare ed avanzare nella
stanza una piccola, piccolissima serpe, che si diresse in
tutta fretta verso il loro letto.
Lavinia, quando se ne accorse, cacciò un urlo. Ma Tiberio
aveva già preso quel suo bastone ed anche questa volta
ne menò a destra e a sinistra, così tante che
mancò poco che quella serpe non rimanesse schiacciata
sul pavimento.
Giove ebbe bisogno ancora una volta delle cure amorevoli della
sua Giunone.
"Non ne hai abbastanza?" continuava a dirgli mentre
lo medicava.
"Prima o poi dovrà cedermi!" ribatteva il
signore dell'Olimpo.
Al terzo tentativo fallito, Giove si risolse di prendere un'altra
strada, perché si convinse che quella era più
che consumata, dato che ormai tutti sapevano dei suoi mascheramenti,
i quali erano diventati, perciò, il segreto di Pulcinella.
Così decise di farla rapire da una spedizione di suoi
soldati al comando nientemeno che dell'invincibile Marte.
Ne parlò con il superbo eroe, e a questi non parve
vero di essere impiegato in un'operazione che aveva tutta
l'aria di potergli meritare delle grandi ricompense.
Furono in tutta fretta allestiti i preparativi necessari e
formato alla fine un bel drappello di soldati, addestrati
di tutto punto.
Calarono dunque sulla Terra e arrivarono alla città.
Si presentarono davanti alla casa di Tiberio di primo mattino.
La gente si era fermata ad osservare quello strano drappello
di soldati sconosciuti. Ora si accalcava intorno a loro.
Quando Tiberio venne alla porta e aprì l'uscio, subito
lo richiuse alla svelta, rendendosi conto di ciò che
stava realmente accadendo, e si mise a gridare a squarciagola:
"Aiuto! Aiuto! Sono venuti a rapire Lavinia!"
Marte dette immediatamente l'ordine di forzare la porta.
"Dobbiamo entrare a tutti i costi. Svelti, svelti! Non
perdiamo tempo."
Stavano per eseguire quel comando i suoi soldati, quando la
gente si rese finalmente conto del pericolo in cui si trovava
la loro bella concittadina.
"Vogliono portarsi via la nostra Lavinia!" urlò
uno, scagliandosi contro il primo soldato che si era mosso.
Di lì a poco, tutti gli altri fecero altrettanto e
si gettarono inferociti su quel piccolo manipolo di forestieri.
Marte si batteva tenacemente e teneva testa a sette o otto
persone da solo, con invidiabile coraggio e anche con molta
destrezza. Ma non altrettanto capaci erano i suoi compagni
che, essendo abituati alla vita pacifica e oziosa dell'Olimpo,
mal riuscivano a scansare sassi e pugni di quella plebaglia.
Alla fine accorsero in aiuto di Lavinia anche i soldati della
guarnigione romana, e a quel punto non ci fu proprio più
niente da fare per Marte e i suoi compari.
Senza onore, ma anche senza alcuna titubanza, misero le gambe
in spalla e d'un botto non si seppe più niente di loro:
spariti, ingoiati dall'aria.
"Torneranno, purtroppo" disse alla gente il povero
Tiberio, mentre ringraziava tutti per il coraggio e la solidarietà
dimostrati.
"Si vogliono portare via la mia Lavinia. Che diritto
ha Giove di compiere questa nefandezza?" E si lamentava
con la Dea Fortuna che ancora una volta s'era schierata dalla
parte del più forte e mostrava di non curarsi affatto
della sua umiliazione.
"Verranno più numerosi, e allora dovremo cedere"
e di nuovo ringraziava la città per il soccorso ricevuto
ma, piangendo, non nascondeva la sua disperazione sentendo
la sconfitta vicina.
"Non è ancora detta l'ultima parola!" gridò
a tutti il centurione che, facendosi largo tra la folla, ora
si trovava proprio davanti alla porta della casa di Tiberio.
Guardò Lavinia, che s'era avvicinata al suo sposo e
lo abbracciava, anche lei piangente, e le promise ad alta
voce che tutta la città avrebbe fatto resistenza, e
lui metteva a disposizione l'intera centuria per la riuscita
dell'impresa.
"Per prima cosa dovremo erigere delle difese" suggerì
ai suoi genieri.
E così in un batter d'occhio, chiamati in aiuto tutti
i muratori, i manovali, i fabbri, i falegnami e ogni altra
specie di operai che si trovava nella città, fu dato
inizio alla costruzione di una cinta muraria, che circondò
la casa di Tiberio e quelle di molte altre famiglie attorno.
L'operazione si concluse in pochi giorni, tanto febbrilmente
ciascuno si adoperò per portarla a termine nel più
breve tempo possibile.
Quando fu finita, tutti si compiacquero del lavoro compiuto.
Furono messe delle sentinelle alle tre porte della muraglia,
ed anche la dimora della bella Lavinia fu sorvegliata notte
e dì da un nutrito drappello di guardie.
Così, quando Marte tornò coi suoi soldati deciso
a farla finita una volta per tutte, trovò a sbarrargli
la strada quella muraglia imprevista.
"Abbattetela!" fu l'ordine perentorio che diede
ad alcuni dei suoi.
Ma al momento di avvicinarsi, ecco che un nugolo di lance
piomba addosso a quegli sprovveduti, i quali subito, senza
pensarci su due volte, fanno immediatamente marcia indietro.
Li sprona ad insistere, Marte, con voce tuonante; e ordina
anche agli altri che sono rimasti nelle retrovie di sostenere
l'assalto, ma dalle porte sbucano infine dei fanti romani
così ben equipaggiati ed usi alla guerra, che tutto
l'esercito di Marte d'un solo colpo si squaglia e se la dà
a gambe levate. E Marte stesso, anche lui, il fiero vincitore
di molte battaglie, questa volta li precede tutti quanti,
spaventato dalla caparbia resistenza della città!
Furono inseguiti e alla fine, come quella prima volta, i fuggitivi
non trovarono di meglio che dileguarsi nell'aria e comparire
con la coda tra le gambe al cospetto dell'onnipotente Giove.
Il quale li rimproverò ferocemente, e soprattutto se
la prese con Marte, definendolo codardo e indegno della sua
fama.
Ci volle molto tempo perché la profonda ferita inferta
all'orgoglio di Giove si rimarginasse.
"Nessuno mi ha mai trattato in questo modo" si lamentava.
"Mai nessuno mi ha fatto fare una tale misera figura."
E così, mentre a Lucca si festeggiava la splendida
vittoria conseguita dalla città, Giove scoppiava in
un pianto dirotto, vedendosi costretto a rinunciare ormai
per sempre alla bella Lavinia.
Di quel pianto resta ancora oggi il ricordo.
Qualcuno infatti sostiene che quelle lacrime caddero proprio
nel territorio lucchese e formarono i due laghetti che ancora
si possono ammirare: l'uno ha nome Sibolla e l'altro Massaciuccoli.
I lucchesi non rinunciarono mai più a quelle mura,
che furono le prime di Lucca.
Esse furono ampliate continuamente, irrobustite secondo i
tempi, e infine anche illeggiadrite.
Oggi, chiunque venga a visitare la città, le può
vedere ed ammirare.
Quelle Mura sono lì, magnifiche e imponenti, a ricordare
tanta parte di storia lucchese, ed anche quella lontana e
superba avventura di Lavinia, la bella sposa che diede scacco
matto a Giove.
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