NICODEMO
Molti secoli fa Lucca era una città potente e i suoi
confini si estendevano addirittura fino alla Maremma.
L'Ozzeri che ancora oggi attraversa il mio paese di Montuolo
era grande come un fiume, più grande dello stesso Serchio
che avrebbe invece avuto più fortuna nel corso dei
secoli seguenti.
Vi erano intorno alla città boschi e foreste e non
vi mancavano né legname per costruire case e barche
né cacciagione.
Anche l'Ozzeri donava con molta prodigalità ai pescatori
che sedevano sulle sue rive o lo navigavano con le loro agili
imbarcazioni.
In quel tempo viveva nel mio paese un uomo di nome Nicodemo,
il quale abitava una piccola casetta nel luogo che ancora
oggi è chiamato "Le cateratte" .
Faceva il boscaiolo per conto del suo duca, con il quale però
non andava molto d'accordo.
Lui infatti si rifiutava di uccidere gli animali quando il
suo signore glielo comandava.
Era però bravissimo in molte altre cose e così
il duca, che in fondo in fondo gli voleva un po' di bene,
continuava a tenerlo al suo servizio.
E nemmeno voleva pescare.
Nutriva un gran rispetto per la vita di tutti: uomini, animali,
come pure pesci ed anche piante, che abbatteva soltanto quando
erano malate o pericolose per il prossimo.
Non aveva figli, e questo era il suo cruccio più grande.
Avrebbe voluto infatti insegnare anche a loro tutto quello
che aveva imparato e soprattutto avrebbe desiderato tanto
far loro capire il valore delle sue convinzioni, che gli amici
guardiacaccia consideravano invece un po' bislacche.
Ma anch'essi, come il duca, gli volevano bene e sapevano che
sempre in ogni circostanza potevano contare sul suo aiuto.
E poiché Nicodemo era uomo robusto, quasi un gigante,
e lavoratore infaticabile, bravo a fare ogni cosa, si può
immaginare quanto davvero valesse restare in amicizia con
lui.
Qualche volta gli portavano anche della selvaggina.
Dopo i suoi primi rifiuti, piano piano, toccando le corde
della sua bontà, riuscivano a fargliela accettare e
a convincerlo ad assaggiarne un po'.
Ne era sempre contenta, invece, sua moglie, che proprio non
sopportava di mangiare verdura e frutta tutti i giorni e lasciava
intendere a quei pochi amici che avrebbe gradito ricevere
più spesso quelle belle visite.
Ma i compagni sapevano anche che non potevano esagerare con
Nicodemo.
Qualche volta era stato invitato al palazzo del duca, in città.
Aveva visto le Mura, le chiese, i begli edifici dalla robusta
architettura, tanto differenti dalla sua piccola casa.
Sempre aveva percorso quelle viuzze come imbambolato.
Gli sembrava di stare dentro un sogno!
Quando poi si trovava all'interno del palazzo ricco di ori,
vasellame prezioso, arazzi... Esisteva davvero tutto ciò?,
si domandava sempre.
Un giorno che vi era andato con sua moglie, ancora giovanissimi,
era stata proprio lei a richiamarlo alla dura realtà.
"Siamo nati poveri, noi. Ecco perché ci sembra
di sognare. Ma questo che vediamo è tutto vero!"
E aveva preso la mano di Nicodemo e gli aveva fatto toccare
ogni cosa che lo meravigliava.
"Senti? È vera!"
E si lamentava della propria condizione. Ma Nicodemo, pur
in mezzo a quelle meraviglie, le ripeteva che lui era contento
così e che non avrebbe cambiato con altri la propria
vita.
Sua moglie ormai lo conosceva e glielo lasciava dire.
Pensava che gli facesse bene all'anima.
Ma lei no, non si convinceva e per il resto della sua vita
avrebbe sempre invidiato il duca e i signori come lui e maledetto
il giorno che era nata povera.
Però ripensava anche al giorno, questa volta benedetto,
in cui aveva visto per la prima volta il suo Nicodemo, bello
come un dio, alto, pieno di muscoli, biondo, gentile, generoso.
Era stata sicura allora che non c'era nulla al mondo di più
meraviglioso del suo Nicodemo.
E quando lui le chiese di sposarla, quello sì che gli
sembrò un sogno bellissimo!
Dopo i primi tempi, però, allorché si rese conto
che c'era anche un modo diverso di vivere e le donne belle
come lei potevano vestire abiti eleganti, indossare gioielli
raffinati, essere lusingate e corteggiate da ricchi signori
padroni di castelli e foreste, di fiumi e di molte altre cose
meravigliose che esistono a questo mondo, dopo quei primi
tempi cominciò a rimproverare al suo sposo di non avere
ambizioni, di accontentarsi del poco che la vita gli offriva,
mentre il suo aspetto fiero e vigoroso gli avrebbe potuto
dischiudere le porte di un'esistenza migliore.
Ma Nicodemo la stava a sentire per un po', poi se la stringeva
tra le braccia sorridendo.
Così, trascorsi gli anni, la donna si rassegnò.
Qualche volta Nicodemo la portava in barca lungo l'Ozzeri
e le mostrava quanto bella fosse la natura che circondava
la loro povera casa.
Campagne smisurate e foreste e piccoli villaggi si aprivano
allo sguardo incantato di lei.
"Tutti i giorni, se vogliamo, possiamo gustare con gli
occhi e con il cuore queste immagini" le diceva contento.
Eppoi la faceva scendere e insieme andavano dentro la foresta.
Nicodemo pareva il re di quei luoghi.
Ne conosceva ogni segreto.
Le indicava da dove veniva il canto di un uccello e le svelava
il nome. Se incontrava un animale lo chiamava e, meraviglia
delle meraviglie, la bestia subito veniva a lui. Nicodemo
la toccava, la carezzava e invitava anche sua moglie a farlo.
Ma subito l'animale sospettoso arretrava, e allora Nicodemo
gli lasciava intendere che non vi era pericolo.
L'animale tornava a chinare il capo e si offriva alle dolcezze
della donna.
E lei doveva ammettere che tutto ciò era davvero molto
bello.
Alla palude che sorgeva nel mezzo della foresta, le mostrava
infine gli incanti che si nascondevano in quell'acquitrino;
e domandava alla donna se le sembrasse giusto che i suoi amici
andassero là a cacciare gli uccelli, a rompere l'armonia
di quell'esistenza che meritava invece rispetto.
"Se tutti facessero come te" rispondeva un po' risentita
la sposa "come si potrebbe campare andando avanti solo
a frutta e verdura?"
Ma Nicodemo non voleva smarrirsi in quelle crudeli elucubrazioni
della mente che lo spaventavano.
Era convinto invece che si poteva egualmente vivere e che
era mostruoso anche solo pensare che la sopravvivenza dell'uomo
dovesse rimanere così strettamente legata alla violenza
contro le altre specie.
Tornando a casa quelle sere, sentiva però che sua moglie
era stata felice.
Quale prova migliore che era lui dalla parte della ragione?
Un giorno il duca lo manda a chiamare.
"Nicodemo," gli dice "mi riferiscono che un
feroce cinghiale sta facendo strage di selvaggina e nessuno
di voi riesce a catturarlo."
"È così, mio signore."
"Voglio che tu lo uccida."
Nicodemo ritorna a casa molto triste. Sua moglie, dopo le
prime domande, capisce che non è il caso di insistere
e rispetta il suo silenzio.
Nei giorni seguenti, Nicodemo lascia la cura del fiume - la
barca resta ferma sull'Ozzeri - e si dedica giorno e notte
a perlustrare la foresta.
Quel cinghiale aveva già ucciso molti animali.
Agiva per istinto. Non ne aveva colpa, lo giustificava Nicodemo.
Però quanto dolore provocava la sua crudeltà!
Nicodemo conosceva le tane più nascoste, gli anfratti
più segreti.
Gli animali che incontrava sembravano sapere della sua avventura;
gli si muovevano intorno mansueti, attendevano la sua carezza.
Nicodemo parlava loro con le solite dolci parole.
Qualche animale di nuovo era stato ucciso.
Ne soffriva Nicodemo.
Metteva tutto l'impegno per stanare la bestia, ma questa era
più scaltra di lui, si muoveva più agilmente
fra le selve. Forse anche lo vedeva, lo spiava e si compiaceva
di potergli stare alla pari, anzi di vincerlo.
Incontrava qualche volta un animale ferito.
Si fermava a soccorrerlo. Se poteva lo curava sul posto, eppoi
lo lasciava libero di correre. Ma quando la ferita era più
grave doveva ritornare a casa, portarlo con sé sulle
spalle, assisterlo, affidarlo alla sua sposa.
Anche lei sapeva e vedeva, ora.
Ed ecco che una sera sull'imbrunire, ancora in giro nel bosco
in cerca dell'animale, Nicodemo sente la corsa di una bestia,
eppoi il suo grido di dolore; ancora la fuga, il fruscio dei
rami urtati, e di nuovo la disperata violenza della lotta.
Intuisce, si affretta, corre.
Il terribile cinghiale è là, lo vede! Nero,
enorme, le zanne piene di sangue. L'altro è ormai piegato
a terra, attende l'ultimo inesorabile assalto.
Ma Nicodemo ha con sé la corda.
Il cinghiale lo guarda, per un momento è incerto se
finire la preda oppure caricare l'uomo, o fuggire; e Nicodemo
è più rapido, decide in fretta e lancia la corda.
S'inanella sul collo, preciso, il laccio.
Il cinghiale si divincola, intuisce la supremazia del rivale.
Il suo grido lacera l'aria. Si fanno attorno gli altri animali
della foresta, guardano Nicodemo fiaccare il nemico, renderlo
docile. Il cinghiale avverte la sconfitta, la volontà
è debole ora, scema la sua violenza.
Nicodemo a poco a poco lo imprigiona nella corda, stringe
le sue zampe. La bestia è distesa a terra, rotola;
più non si alza. Di nuovo il lamento della sua sconfitta
lacera l'aria.
Infine si quieta e si offre al vincitore.
Soltanto ora Nicodemo si avvicina e tocca la bestia.
Questa lo guarda.
Nicodemo la carica sulle spalle e la conduce a casa.
"È enorme!" esclama la moglie quando vede
il cinghiale.
Domanda perché non lo abbia ucciso.
Nei giorni seguenti, lo vede costruire una gabbia. Intuisce,
sa che il suo sposo non avrebbe mai potuto uccidere il cinghiale.
Il duca viene a sapere.
Manda a dire che è contento di lui, ma non approva
quello che sta per fare.
Passano i giorni, e anche i mesi.
Il lavoro di Nicodemo è seguito dagli amici increduli
e dallo stesso signore che dalla città manda frequenti
messi a cavallo.
Il cinghiale infine è domato. Nicodemo lo avvicina,
può toccarlo, l'animale sta in mezzo agli altri quieto
come loro.
Non usa più la sua forza per uccidere.
Il duca non è ancora sicuro; raccomanda prudenza, manda
a dire che quella prova è superba, ma il rischio resta
grande.
Non sarebbe meglio abbatterlo per la sicurezza degli altri?
Nicodemo è risoluto, e il suo signore, infine, crede
in lui.
Dopo qualche tempo, il cinghiale è messo in libertà.
Lo fa di nascosto, Nicodemo; solo qualche amico più
intimo è presente la sera che lo lascia andare.
Il cinghiale lo fissa per un attimo, eppoi subito le sue zampe
mordono la terra, si lanciano nella corsa.
Non si scorge più, ora; è sparito nella foresta.
Passano alcuni giorni e tutti stanno con trepidazione in attesa
di una brutta notizia.
Nicodemo spera con tutto il cuore che l'animale non uccida
più.
Trascorre ancora del tempo.
Nessuno riferisce di uccisioni, neppure di ferimenti.
Anche la sposa è in ansia. Nicodemo sa che l'animale,
come l'uomo, è dono della creazione. Si può
vincere la sua crudeltà.
Infine avverte la certezza. Abbastanza il tempo è trascorso,
e ora lo si può dire che la sua impresa è riuscita!
Il duca lo dice.
E anche gli amici, che lodano il suo coraggio, rispettano
la sua fede.
Nicodemo non è più giovane.
Quell'impresa gli pare la più bella della sua vita.
Trascorsero alcuni anni da quell'avvenimento straordinario.
Ed ecco che un giorno si sparge la notizia che il duca, anche
lui già avanti con gli anni, sta malissimo, e di lì
a qualche settimana muore.
Tutta la città e il contado assistettero al suo funerale.
Nicodemo vi andò con la sua sposa.
Davanti al bel palazzo una gran folla, come non si era mai
vista, piangeva il duca. Ricordava la sua bontà e le
buone opere che aveva compiute.
Anche Nicodemo rammentò le volte che il duca era stato
molto indulgente con lui.
Tornò a rivedere la città.
Non era cambiata.
Nicodemo sentiva di preferirle ancora la sua casetta in mezzo
al bosco, ma doveva ammettere che Lucca possedeva uno straordinario
fascino ammaliatore.
Dalle sue stradette, dalle sue piccole piazze che si aprivano
improvvise circondate dai bei palazzi, sentiva salire il profumo
di una intimità e di una quiete rassicuranti.
Tutte le volte che vi era stato era ritornato a casa con l'animo
colmo di suggestioni.
Così avvenne anche quel giorno, e in modo davvero tutto
speciale perché fu l'ultima delle sue visite.
Infatti Nicodemo di lì a poco morì.
Lo trovò sua moglie una mattina davanti all'uscio di
casa rimasto spalancato. Era disteso a terra, appena uscito
per andare nel bosco.
Già morto.
La sposa si disperò di quell'addio mancato, di non
essersi trovata davanti a lui a colmare i suoi occhi, a riscaldarlo
con la sua presenza.
Che cosa avrebbe voluto dirle in quegli ultimi istanti il
suo Nicodemo?
Mentre piangeva e se lo stringeva al cuore, era lei ora che
parlava con lui.
Alla sua sepoltura vennero ad assistere alcuni amici, molto
pochi per la verità.
La bara stava deposta davanti alla fossa, in mezzo ad un grande
silenzio.
Nel cuore della sposa c'era tanta tristezza; si rammaricava
delle molte assenze degli amici, che pure avevano ricevuto
tanto da lui.
"La vita è anche questa, colma di ingratitudine"
pensava.
Ed ecco accadere qualcosa all'improvviso, proprio mentre la
bara sta per essere calata nella fossa.
Gli uomini hanno già imbracato il legno con le corde,
stanno per sospendere la bara nel vuoto, quando da dietro
gli alberi ecco che spuntano decine e decine di animali, e
sopra di loro volano gli uccelli della foresta.
Avanzano lentamente.
Davanti a tutti sta il cinghiale nero.
Gli uomini si spaventano.
Depongono la bara a terra e restano in attesa.
La sposa invece non teme.
Ha intuito, e va loro incontro. Giunta davanti al cinghiale
si china; l'animale si ferma.
La donna lo accarezza. Si avvicina anche agli altri; ha gesti
di gratitudine per loro.
Piange.
È diventato vecchio il cinghiale. A fatica, da solo,
prosegue ora verso Nicodemo.
La donna sa che è venuto a morire con lui.
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