VIA PELLERIA
Ai ragazzi di Pelleria che resero felicissima la mia
infanzia
Come accade ai più, non ricordo niente
dei miei primissimi anni, che debbono essere stati assai
belli se è vero, come ho occasione di osservare oggi
nei miei splendidi bambini, che sono ricchissimi di sorprese,
di scoperte, di emozioni.
Essi costituiscono la prima impalcatura del nostro divenire,
che resta forse la più fervida, la più imprevedibile,
la più feconda; e quegli anni - è così
strana la vita - non li rammentiamo, benché ne siamo
così tanto impregnati. Si perdono e si confondono
al pari della nostra esistenza prenatale.
Sforzando la memoria, di quel tempo ricordo solo una passeggiata
con mio fratello Giuseppe, maggiore di me di venti mesi,
su di una bicicletta di legno forse di color giallo e rosso;
e della passeggiata rammento un luogo soltanto: porta San
Donato ove nei tempi andati era collocata la gabella (e
infatti con questo nome tutti chiamavamo quel luogo); in
particolare rivedo gli istanti in cui attraversavo, nella
sua poca luce, l'antico passaggio, munito all'interno di
una robusta saracinesca, tenuta sospesa a mezz'aria da congegni
solo oggi svelati.
Della guerra, che pure era al culmine, nessun particolare
resta, se non un'immagine labilissima di una fuga giù
per le scale insieme con altri inquilini, nel pieno della
notte.
Della gabella intiepidita dal sole m'è
rimasto il ricordo del suo tepore e della tranquillità
che certi giorni lì ci prendeva. Non si pensava ai
giochi, ma certe mattine ce ne stavamo seduti al calduccio
semplicemente a chiacchierare.
Altre volte invece ci spingevamo al di là della porta
San Donato ad ammirare due simpatici omettini che fabbricavano
corde.
Lavoravano appena fuori delle Mura, a sinistra di chi esca
dalla città, sul prato che è adiacente alla
strada di circonvallazione. Fino a qualche tempo fa erano
ancora visibili i due sostegni che reggevano la ruota; questa,
girata a mano da uno dei due, intrecciava la canapa che
si allungava sorretta da paletti; l'altro andava su e giù
con una specie di spugna di legno e manteneva bagnata la
nascente fune.
Passavamo, in quei giorni di meravigliosa pace, intere mattinate
a guardarli.
Il primo, mentre girava la ruota, parlava volentieri con
noi.
Ma quando le giornate erano proprio belle
ci spingevamo fino "ai marmi". Là il sole
batte tutto il giorno e non c'era altro luogo che offrisse
tanto spazio ai nostri giochi.
Era così chiamato poiché v'erano stati adagiati,
ben ordinati ai lati della stradicciola, colonne e piedistalli
di marmo provenienti da un monumento disfatto. Ora non ci
sono più e il prato appare al visitatore nella sua
originaria compostezza tutta rinascimentale; ed è
un incanto per chi, giunto sulla circonvallazione all'altezza
della stradina che conduce al cimitero, osservi da lì
le Mura della città, con le sue fortificazioni esterne
che proprio dai marmi principiano e proseguono in direzione
di San Frediano.
Ci divertivamo a correre sopra le colonne disposte in fila
una dietro all'altra: chi andava, chi veniva, chi rocambolava.
Costituivano una fonte di giochi senza fine.
Una delle colonne era leggermente distanziata dalla sua
prossima: per noi quel salto fatto di tutta corsa (un salto
che da grande, tornando sul luogo, apparve ridicolo, ma
a quel tempo che gran salto!) rappresentava una prova di
bravura; e fu proprio lì che un brutto giorno, presa
ormai troppa confidenza con l'ostacolo, caddi sbattendo
violentemente il mento. Fui portato all'ospedale in bicicletta
e lì mi fu ricucita la ferita, di cui porto il segno.
Anche la colonna conservò per anni il rivoletto di
sangue, finché la pioggia, il vento, le intemperie
insomma non se lo portarono via del tutto.
Ai marmi venivano anche le mamme nel primo pomeriggio. Si
sedevano; di solito facevano i lavori di cucito, e lasciavano
giocare noi bambini.
Ci perdevano di vista a volte; e noi si poteva azzardare
qualche impresa più rischiosa, come quella di fare
a sassate, che piaceva tanto a mio fratello Giuseppe e a
Vittorio, un amico che stava sulle nostre scale.
Quando si aveva sete, invece, bastava andare proprio a due
passi dai marmi, vicino al fosso, che allora era assai limpido,
dove sgorgava una polla chiarissima. Qui sostavamo volentieri
e ci sedevamo lungo il bordo erboso, con le gambe penzoloni.
Quando se ne aveva voglia costruivamo dentro la polla una
piccola diga dove lasciavamo andare i pesciolini rapiti
con vecchi barattoli o con reti di fortuna al fosso.
Nei pressi della polla, dalla parte di San Frediano, un
contadino piantava certi anni del granturco. In ottobre,
quando ormai non restavano che le canne secche, quel campo
diventava per noi un meraviglioso e intricatissimo bosco,
dentro il quale scorrazzavamo.
Ricordo che costruimmo con quelle canne una grande e bellissima
tenda indiana, che resistette molti giorni e fu la nostra
delizia, tanto che si trascurava i compiti per accorrere
là tutti insieme, come ad un appuntamento gioioso
e irresistibile.
Più spesso, quando pioveva, si andava
in "sortita", ma accadeva anche di andarci nelle
belle giornate, poiché essa esercitava un suo fascino
particolare su di noi.
La sortita è chiamata quel passaggio che, nei tempi
andati, avrebbe permesso ai lucchesi in caso d'assedio di
uscire dalla città. Dico "avrebbe" poiché
in realtà le attuali mura di Lucca non conobbero
mai le minacce della guerra. Ve n'è una sotto ciascun
baluardo; collegate da bui corridoi, vi si trovano anche
molte altre stanze, anch'esse buie, dove si potevano conservare
provviste ed armi.
Quella del baluardo di Santa Croce era la nostra sortita
che è anche, mi pare, la più bella della città,
così come il più bello è il baluardo
stesso, che meglio conserva i ruderi rinascimentali.
Guardando la "mezzaluna" - come noi impropriamente
chiamavamo i resti della fortificazione costruita nel mezzo
del baluardo - la sortita si trova sulla destra nascosta
dalle cannoniere: bisogna salire sulla cortina per scorgerne
l'apertura.
Il muro attraverso cui ci calavamo (ma più spesso
saltavamo direttamente a terra, data la poca altezza) è
ancora oggi tale e quale, e cioè costituito da una
balza che raggiungevamo con un piccolo salto; da lì
si scendeva mettendo piedi e mani in appositi pertugi che
l'esperienza ci faceva trovare meccanicamente. Giunti a
terra, a destra si apriva (e si apre tuttora) un corridoio
stretto, buio, che conduce ad una porta minuscola ("la
sortita" appunto) attraverso la quale si esce dalla
città.
Rammento ancora il fascino che esercitava su di me il silenzio
di quel luogo, lontano da ogni rumore.
Prima della sortita, in fondo allo spiazzo terroso si ergeva,
poiché oggi non esiste più, un grosso muraglione
di mattoni, che nascondeva una grande apertura. Essa dà
accesso alla serie di stanze buie che ho ricordato più
sopra.
L'attraversarle tutte con torce accese, quale eccitazione
provocava su di noi!
L'ultima di queste stanze infatti era strapiena di pipistrelli,
tanto che il pavimento era ricoperto completamente di escrementi:
la chiamavamo la camera dei pipistrelli, ed è adiacente
alla stanza sul cui soffitto si apre l'ultima graticola
posta all'interno della mezzaluna.
A volte, distesi lungo la graticola alcuni compagni attendevano
che si arrivasse lì, sotto di loro, per acclamarci
e chiamarci per nome.
Si passava quindi alla camera dei pipistrelli.
Qualcuno di noi teneva bene in alto le torce per illuminare
il soffitto: vi pendevano a centinaia, offrendoci una visione
sinistra ed eccitante. Si cominciava così con le
nostre "filombre" la fitta sassaiola. I pipistrelli,
assaliti all'improvviso, si davano alla fuga in volo caotico,
pericoloso per noi; era un turbinio di sassi e di pipistrelli
fino a quando nella stanza non ne restava più alcuno.
Allora si raccoglievano con grida di giubilo le prede vinte
e si faceva ritorno allo spiazzo.
Di quel percorso buio rammento assai poco, e credo che così
sia anche per i miei compagni di allora.
Ricordo in modo particolare che dopo i primi due enormi
stanzoni ci si doveva chinare per passare attraverso una
stretta apertura; poi si sfilava ad uno ad uno lungo un
angusto corridoio dopo il quale principiava la serie di
stanze dove già si potevano incontrare i primi pipistrelli.
In una di queste, al ritorno, ci fermammo una volta per
accendere un gran fuoco. Ci sedemmo tutt'intorno sopra dei
mattoni caduti dai vecchi muri e mettemmo ad arrostire i
pipistrelli morti, senza altro scopo che il piacere di completare
con quel rito sinistro la caccia.
Questa operazione più volentieri la compivamo una
volta ritornati in superficie, insieme coi compagni che
ci attendevano alla mezzaluna.
Altre volte, giunti alla piccola apertura
(la sortita) che conduce all'esterno delle Mura, si usciva
nel prato e, girando sulla sinistra intorno all'orecchione,
si arrivava fin sotto porta San Donato. Si scalava il muretto
ed eravamo in strada, cogliendo di sorpresa qualche passante
che ci vedeva sbucare da laggiù.
Lungo questo percorso ci si imbatteva nel canale che esce
dalla città e confluisce in quello che tutti i lucchesi
chiamano "il fosso". Si doveva allora superare
l'ostacolo con un piccolo salto. Ma quale emozione provocava
su di noi!
Fatto il salto, se si aveva voglia di affrontare un'altra
avventura, anziché scalare il muretto e piombare
in strada, potevamo attraversare il fosso grazie ad una
longarina di ferro che congiungeva le due sponde. Dovevamo
tenerci in buon equilibrio, poiché era molto stretta
e non era davvero facile l'impresa: e infatti ricordo di
esser caduto nell'acqua goffamente, provocando le risate
dei compagni, anche loro però in altre occasioni
derisi allo stesso modo.
Attraversato il fosso, sostavamo al bel lavatoio (oggi purtroppo
in squallido abbandono); nel punto più basso, cioè
tra il fondo del lavatoio e lo scalino sopra cui stavano
le donne, c'era sempre un po' d'acqua: vi lasciavamo cadere
i ranocchi pescati nel fosso o nelle fosse che si formavano
nel prato.
Li guardavamo saltare, ed era uno spasso udire le donne
gridare dallo spavento.
Tra il nostro rione e porta San Donato si
trova il piazzale omonimo, abbellito da un parco di lecci
bassi e numerosi, adattissimi al gioco della guerra.
Infatti, proprio lì venivano collocati i due quartieri
generali, uno sulla punta e uno sulla base del parco, che
ha forma triangolare. Qualche volta servivano allo scopo
anche gli scalini della porta secondaria del vecchio ospedale.
Quel piazzale è rimasto nella mia memoria soprattutto
perché fu teatro di guerra tra il mio rione e quello
di Cittadella: guerra che si protraeva per giorni dato che
contendenti erano i due rioni più popolari e rissosi
della città, e nella quale si rischiava il prestigio
delle parti.
Quando ne scoppiava una, il rione era in fermento e nessuno
osava tirarsi indietro.
Si fabbricavano fionde, ci si addestrava alla mira e ogni
giorno, nel primo pomeriggio, tutti elettrizzati dal pericolo,
si prendeva posizione dietro i lecci, oppure nel cortiletto
del dispensario (oggi sede della "Casa di accoglienza
per immigrati e Casa della pace"), così da poter
rispondere per le rime a "quelli di Cittadella"
che venivano dalle Mura e dalla Manifattura Tabacchi.
La porta antica costituiva di solito la linea di demarcazione.
Non appena ci sorprendevamo a vicenda, le fionde saettavano
fitte sassaiole, insidiosissime. Ricordo un compagno di
nome Alberto colpito violentemente alla fronte da un sasso,
mentre lungo il muro dell'ospedale avanzava verso la vecchia
porta; si accasciò, lo trasportammo nelle retrovie
e infine a casa.
Da entrambe le parti si trovavano ottimi fiondatori; ne
conoscevamo bene il nome e il volto e ci si organizzava
in fretta allorché avanzava uno di loro. Forse, però,
il migliore di tutti era uno dei nostri, Renato, un ragazzone
che ancora giovanissimo usava il fucile con precisione.
Per lui la fionda non aveva segreti: riusciva a spegnere
una candela da una distanza di circa venti metri senza mai
fallire. Era abile cacciatore di lucertole quando uscivamo
fuori porta a snidarle.
Di solito si piazzava dietro un leccio che dava verso le
Mura (era quella la parte più esposta alle incursioni
dall'alto) e lì se ne restava tranquillo. Ogni tanto
però fiondava un sasso, e allora tutti si poteva
vedere lassù da dietro un platano schizzar via il
nemico, colpito infallibilmente.
Più spesso eravamo noi a vincere. Ricordo l'esaltante
inseguimento che facemmo una volta dei nemici in rotta:
lanciando sassi e correndo, li ricacciammo nel loro rione!
Il poggio di Cittadella era strapieno di noi che, con le
fionde tese e superbi della bella vittoria, osservavamo
il mesto rientro dei vinti alle loro case.
All'estremità del piazzale San Donato
fino a non molti anni fa era collocata la "stanza mortuaria"
ove venivano spogliati e preparati i morti.
Un tardo pomeriggio uno di noi, arrampicandosi fino alla
finestra, ne vide uno deposto nudo sul marmo; ci chiamò
e a turno osservammo quel morto pallido e magro.
Il mistero della morte, e in genere tutto quello che ad
essa è legato, attrae l'uomo, che tuttavia vi smarrisce
il pensiero. Istintivamente ciò accade anche al ragazzo,
e un'impresa che ci affascinava e ci piaceva compiere, particolarmente
nelle calde serate d'estate, era quella di vagare attorno
al cimitero di Sant'Anna alla ricerca dei fuochi fatui.
Poiché avevamo tanta paura, ci accompagnava Beppe,
il campanaro del nostro rione, un quarantenne scapolo, con
il quale si stava bene in compagnia.
Si attraversavano i marmi tenendoci stretti l'uno all'altro.
Si sfilava poi lungo la stradetta del Barsotti, il marmista,
sempre più guardinghi e silenziosi; quindi passavamo
ammutoliti davanti al cancello principale del cimitero e
si voltava sul lato sinistro.
Qui aveva inizio l'appassionante avventura.
A quel tempo, dietro il lungo ed alto muro di cinta si estendevano
bei campi coltivati, e filari di meli che erano la nostra
delizia quando ci spingevamo, certe volte di giorno, fin
là. Di notte invece quel luogo era avvolto da un
tenebroso silenzio, e ciò stimolava ancora di più
la nostra fantasia, già fervidissima. Lungo il percorso
ci si imbatteva spesso in qualche coppietta, sorpresa e
ammutolita dal nostro arrivare.
Proprio a metà del muro di cinta, sul lato posteriore,
era un gran cancello a pannelli metallici, arrugginiti e
bucherellati dal tempo; lì ci fermavamo sempre, e
a turno si spiava all'interno alla scoperta dei fuochi fatui.
Accadeva che qualcuno li vedesse e chiamasse i compagni,
e questi, messisi ad osservare a loro volta, non scorgessero
niente. Così al ritorno, qualcuno diceva di averli
visti ed altri che era stata un'illusione. Non riesco a
ricordare se anch'io vidi quei fuochi; ho nella memoria
l'immagine di una fiammella vagante sopra le tombe, nella
parte nuova del cimitero, ma non posso dire se scorsi realmente
quella fiammella o se essa sia invece il frutto, ancora
oggi, del racconto di qualche compagno.
Per osservare meglio la parte nuova, spesso salivamo sull'argine,
sulla cui sommità è tracciato un sentierucolo.
Camminavamo su quello dominando dall'alto le tombe. Era
uno scenario di piccoli lumi assai suggestivo; spesso ci
sedevamo sul poggio ad osservare e ci perdevamo in racconti
e vaneggiamenti sui morti.
Osservando il bel quadro di Seurat dal titolo
"La grande Jatte" si può avere l'idea di
come, in estate, si trasformasse la bella pioppeta sull'argine
del Serchio.
Soprattutto nel pomeriggio, dopo che la gente aveva dedicato
ai bagni la mattinata, era animata dal vocìo dei
villeggianti, seduti a gruppi sull'erba intorno ad una tovaglia
imbandita; si mangiava, si beveva, si chiacchierava in allegria.
I ragazzi della mia età naturalmente non riuscivano
a star fermi; il più delle volte si improvvisava
una partita di calcio quanto mai bizzarra tra quei pioppi
fittamente piantati. Gli adulti, dopo mangiato, si sdraiavano
per terra, più spesso sopra una coperta e dormivano
saporitamente.
Sul fiume erano due i luoghi maggiormente frequentati dai
bagnanti: uno denominato "al rasaio" e l'altro
"al Nozzi". Io andavo al primo, meno insidioso,
dove l'acqua, come si soleva dire, "non ci ricopriva".
Non per questo non vi accadevano disgrazie.
Una volta uno dei compagni, fatto un tuffo, non riemergeva
più; ci mettemmo a gridare e finalmente accorse Pippo,
robusto nuotatore di cui parlerò più avanti,
il quale, ricevuta l'indicazione del punto, senza alcun
indugio si tuffò e riportò in superficie il
poveretto mezzo morto. Raccontò che era rimasto col
capo incastrato tra due scogli.
I più grandi andavano invece al Nozzi dove l'acqua
era alta e si potevano azzardare lunghe nuotate e tuffi.
V'era a quel tempo una baracchetta al di là della
stradina che corre sull'argine, ove si vendevano bibite
e panini.
Era da lì che i più bravi prendevano la rincorsa
per il tuffo.
Tra questi era uno del nostro rione, ancora giovane e già
alcolizzato, simpaticissimo sia da savio che da ubriaco.
Era conosciuto come buon tuffatore ed infatti ogni volta
ne inventava, eseguendo figure le più ardite e fantasiose.
Accadde anche a lui un giorno però, mentre si cimentava
in un tuffo improvvisato, di sbagliare e di piombare dritto
dritto su di uno scoglio nascosto sott'acqua. Svenne e fu
ricondotto su dai compagni: una semplice sgraffiatura per
fortuna, ma che gli costò per sempre le burle degli
amici.
Quando si giungeva nel pieno della stagione, c'era l'usanza
di far disputare al Nozzi delle gare di nuoto. Venivano
poste sull'acqua, proprio sotto la riva sinistra, alcune
botti vuote fissate sul fondo del fiume. Una fila di esse
segnava la linea di partenza e l'altra quella di arrivo.
La distanza tra i due punti veniva coperta dai gareggianti
anche più d'una volta a seconda della prova in programma.
In quelle occasioni, ricordo, si distinguevano pressoché
imbattibili alcuni giovani Polesi, che facevano onore alla
città marinara da cui la guerra li aveva crudelmente
allontanati.
La chiesa del nostro antichissimo rione è
intitolata a San Tommaso, e infatti proprio in onore di
quel santo lì si cresce nel più bel realismo:
chiassate, monellerie, birbanterie; e soprattutto diffidenza
nei confronti di chi non respira ad ogni boccata l'aria
della strada.
A quel tempo era parroco del rione don Silvio Giurlani ,
attivissimo e coraggioso cappellano militare durante la
Resistenza, oggi ingiustamente dimenticato.
Una notte di Natale, mentre diceva solennemente Messa, in
fondo alla chiesa un ubriaco (non era difficile trovarne
in quella notte) entrato a rito iniziato, cominciò
a brontolare sempre di più ad alta voce. Don Silvio
si stava preparando alla Comunione ed era tutto assorto
nella preghiera; all'improvviso, al sopraggiungere d'un
nuovo brontolio, s'interruppe; di scatto si voltò
e si diresse con decisione, così sontuosamente parato,
incontro al poveretto. Senza dire una parola, lo afferrò
per il collo e lo cacciò; quindi ritornò all'altare
serenamente.
Chi fosse entrato nella chiesa fino a qualche anno fa, avrebbe
potuto notare, alzando il capo, due belle file di lampadari
dorati, da cui pendevano strisce circolari formate da piccole
gocce di vetro. Quelle strisce le confezionammo e applicammo
noi ragazzi con un lavoro che ci tenne intensamente occupati
per giorni.
Ce ne stavamo rincantucciati nella soffitta della chiesa,
da dove si accedeva anche al piccolo pulpito. Eravamo in
tre o quattro; e il trovarci in quella piccola soffitta
piena di oggetti sacri, alcuni dei quali ormai abbandonati,
ci elettrizzava. Per interi pomeriggi si restava seduti
sul pavimento ad infilare le gocce e a sistemarle poi sul
lampadario. Intorno a noi contemplavamo con occhi estasiati
gli stemmi dell'antica confraternita, i lampioncini, le
statue di legno nude della Madonna, della Maddalena, di
San Giovanni, che ogni due anni venivano vestite per la
processione del Venerdì Santo.
Questa antica processione era chiamata anche del "Gesù
morto" ed era assai nota oltre che attesa dalla città.
Oggi è scomparsa, ma chi l'ha vissuta come me da
ragazzo non la dimenticherà mai.
Noi ci si "incappava" (cioè si metteva
la "cappa", una specie di saio con cappuccio,
di color giallo) almeno un'ora prima dell'avvio e si vagava
tra la folla ebbri di felicità.
Qualche volta da casa mia, affacciandomi tra mezzo ai lampioncini
di carta colorata accesi, restavo incantato ad ammirare
da lassù tutto quel pullulare variopinto e disordinato.
La liturgia della Settimana Santa conosceva allora una partecipazione
assai numerosa (specialmente alla cosiddetta visita dei
sepolcri) ed era (ma lo è ancora oggi) suggestiva
per la particolarità delle cerimonie così
intensamente legate alla passione di Cristo.
Per tutti quei giorni in cui le campane erano mute, andavamo
in giro con "la traccola", una cassa di legno
rettangolare munita di una manovella; questa azionava un
ingranaggio dal quale usciva un rullio sordo (una specie
di trac-trac, appunto) che sostituiva il suono delle campane.
Ci alzavamo al mattino molto presto per suonarla, pieni
di entusiasmo, e facevamo in due o anche da solo il giro
del rione.
La processione del Venerdì Santo costituiva il culmine
di tali giornate.
Verso le 19 e qualche volta le 20 era dato il segnale della
partenza: principiava allora un gran movimento, un andirivieni
febbrile, nervoso, dei maestri delle confraternite, occupati
a dare ordine alla processione, a stabilire le precedenze
e la collocazione dei vari stemmi e lampioni.
Per ultima si muoveva "la barella" su cui era
montata la scena del Golgota: Gesù sulla croce, con
ai piedi la Madonna, la Maddalena e San Giovanni; e poiché
era pesantissima, per l'occasione venivano gli uomini più
forti della città. Si formavano le squadre, che ogni
tanto si davano il cambio.
In quei momenti la processione si arrestava in attesa.
Tutte le strade dalle quali transitava si facevano onore
gareggiando in luci e in addobbi.
La gente si accalcava ai lati della strada.
In certi punti, come in piazza San Frediano e in piazza
San Michele, era davvero gran folla.
Dietro la barella veniva la banda musicale, schierata in
grande uniforme ed infaticabile: soprattutto il suono dei
piatti colpiva l'attenzione di noi ragazzi.
A quel tempo un'associazione femminile tuttora
attiva, il C.I.F., si faceva carico di molte iniziative
in favore dei ragazzi ed in particolare organizzava colonie
al mare e ai monti e il doposcuola.
Da piccolo ho partecipato ad entrambi.
Delle colonie però ho un ricordo poco piacevole,
poiché sentivo la nostalgia di casa e piangevo spesso,
al contrario dei miei fratelli Giuseppe e Mario che sapevano
meglio adattarsi.
Dopo due tentativi, mia madre desistette con mia grande
soddisfazione.
Verso i quindici anni partecipai a due colonie "per
adolescenti" che si tenevano presso il Sacro Cuore
di Barga e mi trovai - quelle volte e a quell'età
- tanto bene che ancora oggi mi sento legato alla bella
cittadina anche per questi ricordi.
In particolare faceva la nostra felicità il cinema
all'aperto, che si girava proprio al Sacro Cuore, sul campo
sportivo . Potevamo guardarlo comodamente dal balcone delle
nostre camerette.
Ricordo un bellissimo salice - ancora vivente - i cui lunghi
rami cadevano giù fino a terra formando una specie
di capanna; al suo interno due o tre di noi trascorrevamo
ore e ore serene ritagliando figurine col "traforo".
Al doposcuola invece, forse perché si teneva a due
passi da casa mia, e cioè nella sala parrocchiale,
sono andato sempre volentieri.
Ci teneva lezione una signorina del C.I.F. Ce ne stavamo
seduti intorno a tavoli lunghissimi, impataccati di inchiostro
e di scarabocchi, e si facevano i compiti assegnatici la
mattina a scuola; la signorina passava tra noi a insegnarci.
Era molto graziosa e come accade a tutti i ragazzi di questo
mondo ne eravamo un po' innamorati.
Un bel giorno qualcuno raccontò di averla sorpresa
ad amoreggiare col fidanzato sul baluardo di Santa Croce.
A quel tempo ciò significava semplicemente che erano
stati visti sdraiati o sull'erba o dietro un albero o sul
poggio dell'orecchione; uno spettacolo consueto e piacevole
questo, di vedere cioè i nostri baluardi ed anche
le fortificazioni esterne davanti alla cortina di San Frediano
piene di coppiette distese sull'erba: un modo innocente
di vivere la giovinezza oggi scomparso.
L'apprendere che la maestrina veniva a Santa Croce a far
l'amore mise tutti noi in agitazione.
Ed ecco presto combinata una monelleria.
Di solito davamo fastidio alle coppiette molto volentieri:
lo facevamo quasi sempre appostandoci all'interno della
mezzaluna e da lì lanciando "le pellicce"
d'erba. Quando queste raggiungevano il bersaglio non facevano
certo piacere, ed era allora tempo di mettere le gambe in
spalla e battere in ritirata, poiché il fidanzatino
non perdeva certo tempo a scrollarsi di dosso il terriccio:
noi via in fuga e lui dietro per farcela pagare!
Ma una volta imboccata "la scesina" di piazzale
San Donato la partita era vinta. Nessuno infatti osava mettere
piede nel nostro rione.
Accadde la stessa cosa alla maestrina.
Ricordo assai bene che la scoprimmo in pieno amore davanti
alle cannoniere sopra la sortita. Il gioco fu fin troppo
facile e, dopo, come ci sentimmo colmi di felicità!
Le "pellicciate" le tiravamo anche ai passanti
che imboccavano porta San Donato. Ce ne stavamo nascosti
sotto gli archi della casermetta che si trova sopra il passaggio,
con le pellicce pronte e ben ordinate sotto i nostri occhi;
il primo malcapitato che usciva od entrava nella città
se le prendeva tutte: era fin troppo facile cogliere il
bersaglio!
Naturalmente seguiva a tutto ciò una precipitosa
fuga.
Il nostro rione ospitava donne malfamate,
alcune delle quali notissime nella città.
A causa loro, assai spesso scoppiavano violente liti che
duravano anche per più giorni. Succedeva tutto all'improvviso
quando qualcuno (e spesso era la stessa donna) usciva in
strada gridando: "Aiuto, aiuto, si ammazzano!"
Si udivano imprecazioni, urla, poi le grida degli uomini
che si battevano ferocemente. Si formava sempre un capannello
di curiosi; nessuno però osava intervenire tanta
era la violenza della lotta.
Noi ragazzi guardavamo quelle donne con molta avidità.
Accadeva spesso che al mattino qualcuna di loro venisse
alla fonte a riempire il secchio o i fiaschi. Scendevano
discinte e chiacchieravano maliziosamente con noi: piaceva
loro eccitarci e parlare di cose sconce. Era un'occasione
da non perdere, soprattutto quando si trattava della più
giovane: bionda, longilinea, dai tratti molto dolci. Era
pressappoco coetanea, ma già donna; più pronta
a donare che a ricevere. Un nostro compagno l'aveva avuta,
qualche anno prima, domestica in casa sua e ci narrava come
fosse stato facile per lui amoreggiare con la ragazza, cresciuta
in una famiglia di prostitute.
Un certo giorno, con un frate chiamato appositamente dal
parroco, andammo a fare la benedizione delle case.
Il priore tutti gli anni con molto rigore evitava le abitazioni
malfamate. Il frate questo non lo sapeva e il parroco non
pensò quella volta ad informarlo.
Avvenne così che salimmo in casa della più
famigerata di loro, la quale viveva con un'altra prostituta.
Rimase sbigottita aprendo l'uscio, ma ci fece subito entrare
festosamente; e l'uomo che era con lei restò in silenzio
per tutta la durata della cerimonia.
Ma proprio nel bel mezzo di questa, giunsero all'improvviso
da un'altra stanza, sensuali e pungenti, i sospiri dell'altra.
L'imbarazzo fu grande.
Ci accompagnarono per tutto il giorno.
Di liti per donne ho un labilissimo ricordo del tempo di
guerra.
Abitavo allora una piccola casa proprio davanti alla chiesa.
C'era l'oscuramento. Ad un tratto si udirono delle feroci
grida provenire dalla strada. Mia madre aprì cautamente
lo scuro della finestra di cucina, ed anch'io potei vedere
due negri che si battevano a morte sul sagrato. Uno dei
due estrasse fulmineamente il coltello ed assassinò
l'altro, che stramazzò al suolo.
Mia madre chiuse in fretta, spaventata. Tacque.
Solo più tardi si levò un brusìo di
voci e scorgemmo in strada gli uomini della M.P.
Il giorno dopo si seppe che i due negri si erano disputata
in quel modo una delle prostitute del rione.
Quando da noi scoppiavano le liti, si doveva essere prudenti
se la curiosità di vedere ci impediva (ed era quasi
sempre così) di allontanarcene.
Anche per un bicchiere di vino scoppiavano o per una parola
sgradita scappata ingenuamente; e se uno dei contendenti
era un "fumino" (cioè facilmente irritabile
e violento) questi reagiva all'istante con un pugno o con
un calcio per "stendere" subito il rivale.
Scoppiavano anche all'interno del bar Giulio; e se il titolare
- uomo risoluto che sapeva badare agli affari - non riusciva
a spostare la lite all'esterno, allora bicchieri e sedie
turbinavano per la stanza.
Uno di questi era soprannominato il "Morino";
aveva lavorato in Francia per alcuni anni, poi era ritornato
e s'era messo a praticare più mestieri; infine l'imbianchino.
Non molto alto, scuro di carnagione, non si tirava indietro
quando gli si presentava l'occasione di menar le mani.
Una sera si scontrò con un rivale; questi, insidiosissimo,
estrasse velocemente di tasca il coltello. Morino restò
impassibile, lo sbeffeggiò per quel gesto da vigliacco.
L'altro era ormai risoluto, avanzava e si agitava focosamente.
All'improvviso, profittando di un attimo di smarrimento
dell'avversario, Morino con un calcio riuscì a fargli
schizzar via di mano il coltello. Gli fu subito addosso;
lo stordì con pugni e schiaffi.
Morino spesso era ubriaco, come altri del rione; in tale
circostanza era meglio girare alla larga da lui: pareva
una belva fuggita dalla gabbia. Si aveva paura perfino a
passargli accanto o a guardarlo, poiché avrebbe potuto
provocarlo anche un'occhiata o un'ombra.
Il rione abbondava di uomini violenti; tuttavia è
errato, profondamente errato, credere che fossero cattivi;
era la vita della strada che insegnava a comportarsi così;
di fronte ad un altro uomo, in occasione di lite, bisognava
essere i primi a colpire; era insomma la legge del più
forte che regolava il rione e che regola la vita, anche
oggi, di ogni strada del mondo.
I giovani la imparavano dai vecchi.
A Lucca, intorno agli anni '50, era rinomato picchiatore
un certo Canali, che io non ho mai conosciuto né,
suppongo, visto. Si diceva fosse ben piazzato e sempre pronto
a menar le mani.
Uno dei nostri arrivò un giorno al rione tutto affannato
per la corsa. Entrò nel bar e gridò con incontenibile
gioia: "L'ho steso, l'ho steso! Ho steso il Canali!"
Ci raccogliemmo intorno a lui e Aldo raccontò che
in piazza San Michele era venuto a lite con quell'energumeno.
"Quando s'è piantato davanti a me" raccontava
"e ho capito ch'era deciso a picchiare, non ho perso
un istante, mi son detto che dovevo colpire per primo, e
son partito con un diretto preciso. È caduto di schianto."
Fu una gran festa nel rione, perché battere quel
tale non era cosa facile. Aldo morì qualche anno
dopo, giovane ancora, in Francia, schiacciato da una lastra
di marmo che stava scaricando.
Amava correre in bicicletta e da dilettante s'era fatto
un nome.
Quando veniva a correre a Lucca, sulle Mura ad esempio,
tutto il rione si precipitava ad applaudirlo; incitazioni
e secchi d'acqua erano per lui.
Aldo costituiva con altri il gruppo dei giovani di Pelleria,
che s'era creata rispettabile fama tra i picchiatori della
città.
Quante volte rientravano al bar tutti trafelati, con gli
abiti mezzo stracciati per una rissa il più delle
volte scoppiata in passeggiata o in una sala da ballo!
Una sera uno di loro, Luciano, che oggi vive in America,
tornò senza una scarpa, che aveva dovuto abbandonare
appunto in un dancing dove la partita s'era messa male per
lui e i compagni.
Ma il più forte era forse Lello; anche gli amici
badavano a scherzare con lui, che aveva quasi sempre la
mosca al naso.
Terzino in una squadra di calcio, era noto tra gli appassionati
per le sue rimesse con le mani, che lanciava con una forza
eccezionale: veri e propri calci di punizione. Si piegava
all'indietro fin quasi a toccare il capo a terra e saettava
il pallone come una fionda.
La sua forza era molto temuta.
Una sera, durante un torneo notturno, un giocatore lo irritò.
Lello perse la bussola. Conquistò il pallone di prepotenza,
atterrò con il solo vigore del corpo due o tre avversari.
Gli altri intuirono la furia che lo aveva pervaso.
Restarono immobili, come terrorizzati; ed anche il pubblico
fece silenzio in attesa di una tragica incombente esplosione.
Ma Lello si quietò; arrivato sotto la porta avversaria
passò la palla.
Pippo invece non era del rione, ma veniva tutti i giorni
da noi.
Indossava sempre una canottiera, anche d'inverno: pieno
di muscoli, non molto alto, era dotato di una forza straordinaria
che traspariva dalla stessa figura.
Non era cattivo e non si picchiava mai, come capita sempre
a quelli che sono veramente forti. In realtà nessuno
attaccava briga con lui.
Pippo occupava le sue inesauribili energie a fare di tutto
e specialmente era di casa al fiume, poiché gli piaceva
l'acqua ed era un nuotatore formidabile. Riusciva a stare
immerso per alcuni minuti senza prendere fiato; si raccontava
che durante la guerra di lui s'eran serviti per far saltare
o segare i ponti sul fiume.
Molte vite di ragazzi sfortunati o spericolati devono la
salvezza alla sua abilità, oltre che al suo coraggio.
Se sul fiume c'era lui, noi ragazzi si nuotava più
serenamente (e ciò voleva dire anche più spericolatamente).
Ricordo le tante volte che si udiva la voce dei bagnanti
che si passavano il suo nome dall'uno all'altro gridando
perché egli, dovunque si trovasse, accorresse a salvare
uno che affogava. Ed arrivava sempre di corsa; gli bastava
il cenno di qualcuno che gli indicasse il punto e subito
si buttava.
Allora era certo che lo avrebbe riportato su vivo.
Io stesso lo vidi salvare un mio compagno che a causa di
un tuffo maldestro era rimasto con la testa incastrata tra
gli scogli.
Il rione è ambiente chiuso, sospettoso
delle novità, e soprattutto istintivamente pronto
a difendersi dall'esterno.
Con questo sentimento si cresce e ci si ama.
Non mancano le invidie, tuttavia, le gelosie, ma esse hanno
spazio, esplodono solo quando il rione è in pace:
grasse, feroci, non varcano mai il confine dell'ambiente
e subito sono vinte nel momento in cui il gruppo è
minacciato.
Nel rione fiorisce soprattutto un sentimento che l'"altra"
città, più distratta, non avverte, difficile
a definirsi: acerbo e già pruriginoso, nuovo ogni
giorno, che lega tra loro i ragazzi e le ragazze di una
stessa contrada.
Si cresce, si gioca, si è innocenti insieme finché
un certo giorno si scopre che un'amica, fino a ieri bambina,
ha d'un tratto occhi belli, il seno erompe, è simpatica,
ben fatta.
Le giriamo attorno, una frenesia ci prende, ci sbigottisce.
In un rione dove siamo tanti, quando arriva il tempo di
questo rigoglio, di questa stupenda primavera, è
un continuo germogliare; ogni mattina una bambina diventa
adolescente; gli occhi dei ragazzi le sono subito sopra
attratti ancora inconsapevolmente. E accade che la stessa
faccia in poco tempo più mutamenti tutti meravigliosi
e alla fine, ancora incompiuta, profumi già di donna.
Quanti sogni prendevano il volo allora su quelle ragazze!
Che fantasia per conquistarle!
La Messa domenicale era l'occasione più bella che
si presentava.
Le attendevamo già pronti in chiesa seduti nel presbiterio,
come s'usava. La ragazza entrava vestita con grazia; era
subito un cercarci con gli occhi, un guardarci con intensa
tenerezza.
Finita la Messa, si usciva dalla chiesa.
Due o tre di loro s'appartavano maliziosamente, prendevano
la strada per porta San Donato o per le Mura: un chiaro
richiamo. E noi s'andava.
Nascevano "le cotte" e c'era tra noi e loro una
meravigliosa intesa che credo sia appartenuta anche alle
precedenti generazioni del rione, così calda, così
confortante, e cioè che i nostri amori si coltivavano
tra noi, nel rione; guai ad innamorarsi di altri e se ciò
per caso accadeva ai ragazzi, le ragazze si facevano gelose,
pungenti, scure in volto, inquiete; il ragazzo, che quotidianamente
viveva fra loro, presto però dimenticava e tornava;
la tacita riconciliazione irradiava gioia a tutto il gruppo.
Erano sentimenti teneri e tuttavia tesi che rubavano il
sonno e le ore allo studio; non profondi però, ed
era facile innamorarsi delle altre compagne. Allora non
v'era rancore, perché anche tra loro le ragazze avevano
un patto segreto: che il ragazzo non "uscisse"
dal rione e chi poteva doveva impedirlo.
Sono trascorsi tanti anni da quei giorni
e mi capita di rado di passare da Pelleria.
Quando le rare volte incontro qualcuno dei vecchi compagni,
mi scuso di non avere più tempo: è concesso
assai poco ai ritorni, alla memoria dei sentimenti; gli
uomini mutano, invecchiano, muoiono; ti rendi conto solo
quando è troppo tardi di non aver fatto in tempo
a visitare l'amico, ad incontrarlo dopo anni di silenzio.
Quante volte ho pensato di fermarmi, rivedere i luoghi,
le finestre, le stanze dove ho abitato, che mi hanno visto
bambino; salutare gli ultimi ancora rimasti lì.
Ma il lavoro, i piccoli impegni quotidiani, lo scrivere,
la famiglia rosicano il tempo, ossia la vita.